Ugo Betti (Camerino 1892 – Roma 1953), riconosciuto unanimemente tra i più grandi drammaturghi del ‘900, è autore di opere che hanno profondamente caratterizzato il teatro italiano fra il 1926 e il 1953 e che uniscono ad una spiccata predilezione per il fiabesco e il simbolico anche un profondo impegno morale e un’accentuata escavazione psicologica dei personaggi.
Egli è certamente il più grande drammaturgo di tutta la storia letteraria marchigiana.
Betti ha sempre mantenuto profondi legami con la sua terra natale che emergono chiaramente nelle sue raccolte poetiche dove spunti realistici si mescolano alla dominante intonazione fiabesca e simbolista: Il re pensieroso (1922), Canzonette – La morte (1932), Uomo e donna (1937).
Un più accentuato realismo sempre velato da toni fiabeschi e simbolici è presente nelle raccolte di novelle dove è avvertibile un forte richiamo alle proprie radici camerinesi: Caino (1928), Le case (1933), Una strana serata (1948), alle quali va aggiunto il romanzo La Piera alta (1948).
Teatro
1) La padrona (1926)
2) La casa sull’acqua (1928)
3) L’isola meravigliosa (1929)
4) Un albergo sul porto (1930)
5) Frana allo scalo nord (1932)
6) Una bella domenica di settembre (1935)
7) Il cacciatore d’anitre (1934)
8) Il diluvio (forse 1931)
9) Il paese delle vacanze (1937)
10) I nostri sogni (1936)
11) Notte in casa del ricco (1938)
12) Marito e moglie (1943)
13) Il vento notturno (1941)
14) Ispezione (1942)
15) Irene innocente (1946)
16) Favola di Natale (1940)
17) Spiritismo nell’antica casa (1946)
18) Il giocatore (1950)
19) Corruzione al palazzo di giustizia (1944)
20) Delitto all’isola delle capre (1948)
21) Lotta fino all’alba (1945)
22) La regina e gli insorti (1949)
23) Acque turbate (1951)
24) L’aiuola bruciata (1951/52)
25) La fuggitiva (1952/53)
Poesie
Piccola nuvola di primavera
Le statue
La passeggiata
Primi freddi a Camerino
Domenica d’aprile
I ricordi
La bella addormentata
Alla nebbia
Alla vita
Raccolte poetiche
1910: Le Nozze di Teti e di Peleo (trad. da Catullo), Camerino
1922: Il re pensieroso, Ed.Treves
1932: Canzonette – La morte, Ed.Mondadori
1937 : Uomo e donna, Ed. Mondadori
1939/53: Ultime liriche.
Narrativa
1928: Caino e altre novelle, Ed.Corbaccio
1933: Le Case (novelle), A. Mondadori editore
1948: La Piera alta (romanzo), Ed.Garzanti
1948: Una strana serata (novelle).
Le opere di Betti sono state tradotte e pubblicate in quasi tutte le lingue del mondo.
Alcune poesie di Ugo Betti
Mammina, quante
dolci piccole stelle!
Ma le piante
sono come belve.
accovacciate!Un’ombra si muove
piano piano…
Dove sei, mammina?
Prendimi per mano.
Un passo leggero
ci segue. Uno sconosciuto nero
muove le fronde…
Si nasconde
come per farci sgomento!
E’ il vento,
non è vero, mammina? E’ il vento.
Le stelle sono lontane lontane…
Sembrano carovane
sperdute nell’oscurità…
E si cercano invano.
Di là da le stelle, che ci sarà?
Mammina, prendimi per mano.
Con la miseria empimmo questa sacca,
e vi mettemmo un pugnello di grana,
il piccone rintocca con la zappa,
i figli nostri li abbiamo per mano.
Oggi non ci mancò vino né pane;
la sera è chiara, l’organetto suona;
c’è un che di festa: ma senza campane!
O genti, se da voi avemmo torti,
ormai fu seppellito il bene e il male.
Dorma il padrone sul fresco guanciale
con la sua sposa, e non abbia rimorsi!
Addio campo, campo di spighe amare!
Il padre è vecchio,non farlo penare.
Padre,per noi non aver temenza,
che là o qua sarà sempre zappare;
sempre alla terra doversi specchiare,
questa è la sorte di nostra semenza.
La faccia nostra ha colore di campo!
Dammi il fagotto,padre che sei stanco;
torna alla casa ed abbi pazienza.
E nostra madre vestita di nero
raccomandare tante cose vuole:
d’aver coraggio,d’aver pensiero…
Ma ora piange,nè può dir parole.
Ora nelle sue mani poverette,
dopo tanto pregare e faticare,
lacrime,per moneta,Iddio ci metta!
Ed ora andiamo:e tu suona compare.
Dopo l’acquata le nuvole, pronte,
pigliano il volo, scavalcano il monte.
Or con la gonna di velo sottile
la più pigra si impiglia al campanile.
“Lasciami con codesta banderuola,
mi strappi tutta! Son rimasta sola!”
Ma il campanaro senza discrezione
le risponde col campanone!
Che sobbalzo, che sgomento!
Per fortuna c’era il vento
che con tutta galanteria
la piglia e se la porta via.
La porta a spasso lieve lieve
sul torrente, sulla pieve;
tutto il mondo le fa vedere,
tetti rossi, maggesi nere…
E che brillio di vetri e foglie!
Quanti bambini lungo il rio!
Quante vecchie sulle soglie!
Che festa, che chiacchierio!
Bimbi e rondini a strillare,
e bucati a salutare,
e ragazze alla finestra…
e il poeta a stillarsi la testa!
O primavera, uccelletto fuggitivo,
tu canti, io scrivo.
Quando il cielo ritorna sereno
come l’occhio di una bambina,
la primavera si sveglia. E cammina
per le mormoranti foreste,
sfiorando appena
con la sua veste
color del sole
i bei tappeti di borracina.
Ogni filo d’erba reca un diadema,
ogni stilla trema.
Qualche gemma sboccia
un po’ timorosa,
e porge la boccuccia color di rosa
per bere una goccia
di rugiada…
Nei casolari solitari
i vecchi si fanno sulla soglia
e guardano la terra
che germoglia.
La capinera prova una canzonetta
ricamata di trilli
e poi cinguetta
come una scolaretta.
I grilli
bisbigliano maliziose parole
alle margherite
vestite
di bianco. Spuntano le viole…
A notte, le raganelle
cantano la serenata per le piccole stelle.
I balconi si schiudono
perché la notte è mite,
e qualcuno si oblia
ad ascoltare quello che voi dite
alle piccole stelle,
o raganelle
malate di melanconia!
Nei mattini di maggio
dolcemente batte ogni cuore!
E nasce un piccolo cuore selvaggio
anche alle belle di marmo
tutte nude
che il fresco giardino racchiude!
Allora per tutti i nascondigli
s’odono brividi e bisbigli…
Il sole spia tra fronda e fronda
come una fuggitiva spera bionda…
E qualcuno, che va pei giardini
come un fanciullo trasognato,
ascolta le belle di marmo
ridere tra sé
poi sospirare, chi sa perché!
– O tutta bianca, perché ridete?
Perché sospirate?-
La bella con un riso apre la bocca
e dice:
– Sarà questa fronda che mi tocca
e mi fa ridere…
Sarà qualche stilla
che il vento dalle rame fa gocciare
e sul petto mi brilla
e mi fa sospirare…-
Ride la bella, ma con un po’ di pianto
e dice:
– Nei mattini di maggio
vorrei spezzare quest’incanto
di marmo!
Vorrei soltanto
mordere per gioco
questo mio braccio bianco…
Vorrei scendere un poco
e passeggiare per questi giardini…
ma ci vorrebbero due scarpini,
due scarpini di raso
perché la ghiaia mi può far male!
E se qualcuno m’incontra per caso
tutta nuda, nel mezzo d’un viale?
E se mi pungono le vespe?
Ci vorrebbe una bella veste
come portano le dame,
tutta di seta e broccato
che frusciasse fra le rame…
E poi, vestita come una regina,
vorrei trovare questa fonte che canta,
vorrei tuffare
nell’acqua fredda una manina!
E poi l’acqua farei quetare
e mi ci vorrei specchiare…
E forse il muschio mi ricopre tutta
e sarò diventata brutta!
La dama vestita di seta
guarderà con un batticuore
nella fontana queta…
E forse la fontana
specchierà tra verdi frange
una dama inginocchiata
che piange!-
Così, nei mattini di maggio,
qualcuno, come un fanciullo trasognato
ascolta un cuore selvaggio…
E da una siepe la primavera
prende una fraschetta leggera
e di soppiatto
si diverte a stuzzicare
quel fanciullo distratto, per farlo ridere, per farlo sospirar .
Pieno fu il giorno di verde e d’aria serena.
Ora ella dorme stanca di prati. Sa d’erba.
Fresco, memore di vento, il suo sonno.
Passano dentro lei supina, come un fiume,
belle nuvole, foglie.
Molto a lei piace, con la nuova stagione,
uscire ai chiari cieli.
E’ lei che scopre, con un tenero riso,
la vocetta del grillo;
e poi lassù, nel meriggio celeste
la falce della luna.
Allora, pei sentieri
del ritorno, al mio braccio
andando, ella sospira:
– Che bel giorno! Non lo dimenticare.-
Ora la guardo stanca di prati dormire.
Così taluno quasi mesto siede
a una finestra sopra un giardino notturno,
e gli odorano d’erbe i pensieri.
Silenzioso il prato
dei bambini stamane; sulla fredda
erba,straniero,tu
solo e settembre andate; le voci chiare,
le corse delle giovinette non più;
non per te era quel gaio chiamare
ma per l’estate
che presto fugge
quassù.
Quando vedete le nespole piangete,
sono l’ultimo frutto dell’estate.
S’ode al paese giù
da colmi carri scaricare ciocchi;
sull’uscio, lieta gli occhi
delle provviste, la massaiia sta.
E a te che resterà
o straniero, di tanto
caldo di prati e arioso
mereggiare? Morì
il canto delle cicale
rado
gli ultimi dì.
Quando vedete le nespole piangete,
sono l’ultimo frutto dell’estate.
Rossa la gota,
chiodata la scuola,
fischia il ragazzo e trotta
verso casa; nel cuor se la figura
piccola calda scura
come il covo della marmotta.
Ma un tepore per te
o straniero, se autunno imbruna il prato,
dov’è?
Quando vedete le nespole piangete,
sono l’ultimo frutto dell’estate.
Guardi soletto là
fuggire sopra ognuno
dei vecchi tetti fumo
e tramontana.
Pure mestizia, se alcun dipana.
reca a un conforto, come un fil di lana.
Men triste va, chi va tra sé pensando
gremiti i focolari, antichi inverni,
e gli va il vento di settembre accanto…
Quando vedete le nespole piangete,
sono l’ultimo frutto dell’estate.
E’ venuto aprile!
Dall’uscio ha fatto capolino
come un bambino!
Come un bambino che tenta
i primi passi, e poi si sgomenta,
e pensa…e ride con occhi stupiti
color del cielo,
ride al mondo grande,
alle nuvolette di velo!
Un volo di bianche ali
se ne va per l’azzurro!
E le cattedrali
sono trasparenti come sogni!
Le tende si gonfiano come vele,
con un sussurro…
Portavo nel cuore una pena, ma non so ricordare.
Nella mia mano esangue
ogni vena
batte dolcemente…
Il sangue
è come latte innocente…
Sono un convalescente
che siede al sole
e bisbiglia vane parole
e sorride con la bocca smorta.
Aprile,
dolce dormire!
Nelle case benedette
un angelo si china sul guanciale,
mette la sua manina
sulle palpebre inquiete,
e il male
s’addormenta.
Avremo acqua per la sete,
e per la fame, il pane
segnato col segno della croce.
Udremo le campane
dei mattini sereni
quando i vecchi piangono di dolcezza
e di tristezza…
Riposeremo nelle pievi solinghe
come fanno i mendicanti,
guardando i santi
e i re
e i cherubini che ridono
e non sanno il perché.
Voglio dormire in un solco
come un bimbo nella cuna
Vedo tutto il cielo
E le nuvole s’affacciano agli abissi turchini
ed hanno paura…
Ed ecco, una nuvola lieve
abbandona le sorelle di neve!
L’aria è turchina…
E per dolcezza, pellegrina
diventa tutta di rosa,
e diventa pallida… e si culla…
E poi si strugge.
E non è più nulla.
Oro le mura
Le torri cristallo;
è la terra scaglia dura,
accecante specchio giallo.
Senza mai notte o ristoro
la vampa del sole piomba.
Sfolgora la città d’oro.
Non v’è stilla d’acqua o fronda.
Non alito, né ronzio,
né calpestio.
Vanno i Re nei manti scarlatti,
taciturni, col passo dei gatti.
Ogni gemma, ogni metallo,
implacabile specchio giallo,
specchia gli occhi, fissi, matti,
senza sonno, senza pianto…
Non v’è alito, non canto.
Duro è l’oro, la gemma è dura,
non si può fare sepoltura.
Guardando il sole con gli occhi sbarrati
i Re morti sull’oro coricati.
Laggiù ora la giovane pecora
bruca il timo di primavera,
volge il torello la narice nera
dal chiuso e mugghia al prato.
Laggiù sul pozzo, le rame
del salice pesano come collane.
Di questi tempi sul caldo greppo
Già godeva l’aria schiarita:
di sotto al palmo la ruta lanuta
prudeva come un animaletto.
Mi saliva la formica
credendomi un ceppo.
Laggiù, dal folto, poiché un filo
di sole punge il suo piccolo petto,
chioccola il merlo, tace
Non altro mi recava la tua pace
ai bei mattini, poggetto
di Camorciano.
Nell’ora dei rondoni, una sonora
porta sbatte, s’avviano solitari
passi nella via cheta.
Va il passeggero e ancora
gli parla e l’inquieta
la voce dei familiari.
Ma come s’apre dai muri la via
e d’orti umida odora,
la foglia sulla siepe,
trepida senza vento ecco gli fa
fresco nel petto e quiete.
S’ode remoto ormai
dei fornaciai il canto consueto
ed il martello alterno,
argentea eco.
Finché incontra il sentiero
quasi un silenzio e poggi inabitati e il rossore
verso ponente cui sospira il cuore,
da lui caduto il peso
dei volti amati.
Un gridio di bambini, ultimo, verso
Il celeste vanì. Poi nella nera
Siepe, solo più svolta
Il passero cui fa fretta la sera.
Ama l’aria che imbruna il passeggero,
quieto andando.
Gode quell’ombra; ed il pensiero
della morte gli è affianco.
Odo il suono incupire
della fontana, cui la sera reca
brocche sonore, e fa
soave la finestra a chi fu solo.
Sull’uscio donde odora
la cena, l’operaio del guadagno
faticato si duole,
ma so che è lieto e lo punge il compagno;
lieta, e finge ira, dà
la voce il carrettiere, nella buia
stalla, al cavallo stanco.
So dove, in pugno una moneta, corre
la bimba, e le fa fretta
il pestello del sale!
Tanto è gentile il codesto serale
tramestio, che vedere
ormai segreta d’ombra e solitaria
la via, quasi è mestizia.
Ma se gli usci apre l’aria
tepida, ancora il suono
giunge della stoviglia e il casalingo
ragionare. Ne ha, chi ode, il cuore
allegro; ed al guardingo
gatto ride, che tenta lo spiraglio
verso l’altrui cucina.
Ride. Nella turchina
sera lo sguardo per dolce uso là
gli fugge, ove fra poco nascerà,
lattea goccia, il fanale.
Poi confidente il giorno
verso il domani e il sonno chinerà
l’esile peso. Così volgon l’erbe
murarie entro la crepa
il delicato filo a farsi verde.
Là sono i giorni del passato, come
rami fiorenti, fronde
serene, margherite: e di mio padre
giovane, il viso.
Là siete, api turchine
del parato d’allora,
tavolo antico rigato di sole!
Perché m’è rivedervi
tanta festa e nel petto
spina che duole?
Tra voi cammino, come
per prati ove il silenzio,
fa sommesso il respiro;
quindi ristò, fra me ridente a miti
rammarichi; l’aroma ecco mi china
d’una buon’erba.
Così senza perché contento
vagavo il colle, là verso Chienti, attento
alla goccia, all’odore
della cedrina. Non sapevo in quel tempo
che ogni mio passo disegnasse aiuole.
Aprìco, vario quel giardino, a chi
Di meriggio vi torna.
Amato quel dolore
Come bell’ombra.
Va su, come un filo di fumo,
da ogni tetto un bisbiglio: c’è qualcuno
dentro ogni muro, che ride
tossisce, borbotta, vive.
E poi fruscii di foreste e di vento,
muggito di mari, ronzìo
di rupi calde: dalla terra un brusìo
fuma come un incenso.
Una bruma armoniosa, venata di campane,
umida di respiri e di fontane
lentamente snodandosi, va via.
Resta indietro come una scia.
Dietro di noi si sgroviglia una chioma,
come d’una cometa, però opaca.
Non luce argentea; cupi echi abbandona
la creta, lungo l’infinita strada!
Dove passammo qualche cosa è rimasto:
dai primi cieli un nastro
sibilante sdipana, e intanto fugge,
la terra; e in suoni e attimi si strugge.
Ecco, dove saranno fra poco questo calpestìo,
questo polso che batte, questo affanno,
queste sillabe? Già mi dicono addio.
Addio. Già sono un po’ più morto. Fiotti
gorgoglianti della mia vita,
già dalla bocca, dalle vene, dalle dita
mi sono rubati… già sono silenzio .
Come raschiati via da un vento.
Altrove. Forse per eterne vie nere
dura il respiro delle brevi stagioni.
Ivi piccoli nomi
passano, passano perdute preghiere,
calpestii di popoli spenti.
Ivi dei continenti
sepolti mormorano le primavere .
Là forse resta delle mie sere infantili
quel canto di grilli solitari negli orti.
lvi è il passo di mio padre, vicino
ad un piccolo passo. lvi chiedo io bambino:
– Papà, dove mi porti?
C’è l’erba folta, per le viuzze scoscese
di quel vecchio paese…
Ad ogni suono di passi
qualcuno dice: chi sarà?
E poi s’affaccia
tra il canarino e i lillà.
Qualche volta uno straniero
cammina dolcemente
per le viuzze scoscese
di quel vecchio paese…
Nel paese addormentato
c’è sempre il canto d’una spola!
Si sente il coro dei bambini
compitare nella scuola
qualche difficile parola…
E chi sa? Dalla finestra
forse butta una spera, il sole,
tra le dita dei bambini
e quelle difficili parole.
Nei meriggi si sente una spinetta
Timidamente sonare un’arietta…
Quando è giornata serena
un vecchio sta seduto al sole…
Scrive scrive sulla rena,
col bastone, chi sa che parole…
Forse gli verranno a mente
i tempi della gioventù!
E poi cancella dolcemente
le storie scritte sulla rena,
e non se ne ricorda più.
Al tramonto
le ragazze vanno alla fontana
e tutte sanno un bel racconto,
e nell’acqua d’ogni secchia
c’è la prima stella che si specchia!
E poi si fa notte,
si chiudono tutte le porte.
Poi, da tutte le porte chiuse
ecco che brilla un filo di luce!
E forse uno straniero
cammina solo solo
per le viuzze scoscese
di quel vecchio paese.
Chi s’ama e insieme va, prova un riposo.
Premono i passi un fresco
prato silenzioso.
L’uno l’altro non guarda, ma il celeste,
il chiaro verde;
quei bei colori lampo d’occhio scambia
come canestre.
Se talvolta s’oblia
un po’ lo sguardo all’altro sguardo, e perde
in lui quel lume d’azzurro, di verde,
presto una timidezza lo fa chino:
esser guardata la gioia non vuole.
Con un riso tra sé van le felici
ore sempre un po’ sole.